MATTEO MASTRAGOSTINO


McNasty. Un volo verso il cielo...

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Sono nato in un playground, cresciuto su un campo da basket, e non c’è luogo migliore dove avrei potuto morire. L’ultimo volo, verso il cielo…

Ora che questa terra non ospita più il mio corpo, ora che guardo tutto dall’alto, mi rendo conto che il rumore che si sente non è lo stesso. Non c’è più il rimbalzo ritmico del pallone arancione, non ci sono più gli schiamazzi degli amici e del pubblico al Rucker. Qui c’è tranquillità, forse troppa. E un pizzico di rimpianto per quei sogni che non ho mai potuto realizzare.

I miei primi passi li ricordo su un campo da basket, il resto non ha importanza. Le retine in ferro, le schiacciate fragorose, le volte in cui i miei avversari pensavano di aver segnato senza ftener contro delle mie braccia protese. McNasty, il mio nome da fiero guerriero d'area.

I playground e gli amici. Il sogno comune di andare nella NBA e il tentativo di realizzarlo davvero attraverso la Brooklyn High, una scuola di New York. Già… “the big apple”, l’unico posto dove mi sia sentito veramente a casa, nel quale tornavo sempre. Il posto in cui ho lasciato la mia fidanzata ad attendermi. Sarei dovuto tornare con un contratto, con un sorriso. Lei mi avrebbe baciato e avremmo finalmente potuto sposarci. Il destino ha deciso per noi, ha deciso che non era il momento…

Il rimbalzo del pallone è sempre dentro di me. L’ultimo anno di High School tutta quella gente veniva a vedermi saltare come un ossesso, intimidire gli avversari per poter tenere alto il mio soprannome, per potermi vantare poi coi giocatori veri, quelli del Rucker. Il quintetto cittadino fu il primo segnale di rispetto ottenuto. Il secondo fu il McDonald’s Open del 1989. Tutti erano lì per vedere quel bambino che sembrava già uomo, Shaquille O’Neal. Nessuno al di fuori di New York si ricorda che c’ero io ad affrontarlo nel quintetto dell’ East. Nessuno al di fuori dei miei amici si ricorda che perfino il signor O’Neal ha dovuto subire la mia agilità. Probabilmente lui ha dimenticato quando gli sono sfuggito con un guizzo, passando dietro il tabellone ed gli ho inchiodato il pallone sul muso. Lui non lo ricorda. Io si…

Il gioco mi permise di avere una istruzione. La prestigiosa Syracuse University mi offrì una borsa di studio. Quattro anni sotto coach Boheim, il primo a bottega da un maestro del gioco come Derrick Coleman, gli altri tre sempre in crescendo. Grandi salti, grande spettacolarità. Il mio cuore pompava il sangue a mille, l’adrenalina con cui giocavo prendeva anche il pubblico. Bastava un mio guizzo per poter cambiare l’inerzia di una partita. Una stoppata dal lato debole, un’alleyoop e il pubblico iniziava ad urlare come impazzito. Ma non ero solo quello, non solo un giocoliere: nell’ultimo anno misi insieme statistiche di tutto rispetto: 12.7 punti, 7 rimbalzi e quasi tre stoppate. Questo e le doti atletiche bastarono perché anche al piano di sopra si accorgessero di me, talento ancora grezzo ma dal potenziale infinito. I Lakers spesero la loro seconda scelta per un certo Nick Van Exel, ma rimarranno l’ultima squadra ad ignorarmi. Col n° 38 i Washington Bullets scelgono Conrad McRae. Finalmente anche lì avevano riconosciuto il mio valore, anche la lega mi dava il rispetto che mi ero guadagnato. O almeno così credevo…

L’inizio, i paragoni col primo ed esplosivo Shawn Kemp, il consiglio di farmi le ossa attraversando l’oceano. Io, lontano dagli States, lontano da New York, la mia New York… ma il sogno della NBA era sempre dentro di me, e mi diede la forza di arrivare nel vecchio continente. Francia, poi l’Efes Pilsen, dove contribuii a far vincere una coppa Korac, la prima coppa europea di una squadra turca. E d’estate iniziava il vero basket, quello sul cemento del Rucker, quello dove anche le stelle della NBA dovevano darmi credito, subire i miei guizzi, proprio come dimostrai a Shaq al McDo. In seguito arrivò l’Italia. Bologna, l’All Star Game e la vittoria nella gara delle schiacciate inchiodando un pallone infuocato. Da lì il pubblico iniziò a conoscermi come “Mangiafuoco” McRae. Urlavano ai miei balzi, mi amavano veramente. Solo le leggendarie sirene greche poterono portavi via. Mi condussero fino al secondo quintetto assoluto della lega. Era il 1998, Conrad McRae aveva dimostrato anche in Grecia di essere un vincente, aveva ottenuto il rispetto, perché la NBA continuava ad ignorarlo? Tanti camp, tante summer league ma nessun contratto, niente di niente… il sogno continuava a danzarmi davanti, sfuggevole come una nuvola autunnale.

Già, l’autunno… la stagiona maledetta, quella in cui tutte le mie speranze si infrangevano sugli scogli del training camp. Lì iniziavano i viaggi; io, Cristoforo Colombo al contrario, fino all’estate successiva ero in esilio. Ma poi diventavo di nuovo McNasty. Le copertine nelle metro, quella in cui anche la And1 mi inserì nei suoi celebri Mix tapes. Non fu la sola. Il circuito di 3 vs 3, le sfide in televisione, il documentario “On hallowed ground”… ero una leggenda, nessun dubbio.

Solo la NBA non voleva concedermi il rispetto che in tutti gli altri posti mi ero già preso. La lega ribussò un’altra volta. I Denver Nuggets mi fecero firmare un contratto decadale, finalmente anche lì si erano accorti di me, dei mie voli. La prima partita, il riscaldamento e poi il buio. Mi svegliai nello spogliatoio senza saperne il motivo. Dopo le analisi i dottori mi dissero: “il tuo cuore non funziona bene, hai chiuso col basket”. Ah! Ah! Io che avrei chiuso col basket, io ho vissuto di basket, io sono una leggenda, chiedetelo a New York, chiedetelo a Shaq, che finge di non ricordarsi… svenimento per l’aria rarefatta fu quello che dissero i dottori, di certo non potevo smettere di rincorrere il mio sogno perché quei quattro ciarlatani pensavano che il mio cuore fosse difettato. Continuai…

Il ritorno in Italia, l’ultimo in Europa, a Trieste. La curva dei Dragons, quella che indicavo dopo ogni mio guizzo, quella che cantava il coro “Mangiafuoco, chi è?”. Loro, che ripagai purtroppo meno di quanto avrebbero meritato. Non vidi morire mio padre, quell’anno. Se ne andò, in silenzio, senza avvertirmi…

Arrivò di nuovo l’estate, tempo di McNasty. La Summer League con Orlando, in California. Stranamente i miei balzi sembravano più pesanti, il petto mi doleva. Ma io ero Conrad McRae, io inseguivo un sogno. Raccolsi le forze e spiccai il salto più alto della mia vita. Datemi la palla idioti, che aspettate?!? Perché fate quelle espressioni ebeti, dove correte?!? Il corpo non mi seguì, in quel volo. Si accasciò al suono con un tonfo sordo e tutti i compagni accorsero. Stupidi, non si erano accorti che io stavo volando: Passate quella cazzo di palla, perché vi fermate?!?! Io devo inseguire il mio sogno, la NBA.

Scusami cara, non potrò tornare a sposarti, come ti avevo promesso. Il mio cuore mi ha fermato. Salutami la mia adorata New York. Iio sono qui, tra le stelle del cielo.

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