MATTEO MASTRAGOSTINO


Profumi

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Ho sempre adorato mio padre. Non che fosse un genio, un uomo importante o qualcuno di cui la storia si ricorderà. Probabilmente ci ricorderemo di lui solo noi, che siamo cresciuti intrecciando le nostre vite alla sua. Un intreccio stretto, di quelli che non si slegano neanche nel momento del dolore. La sua figura forte e imponente ha dato alla mia famiglia un senso di sicurezza. Come i giovani arbusti che crescono sotto l'ombra della grande quercia.

Mio padre ha sempre detto che la vita si divide in profumi. Il profumo del ciliegio in fiore fa capire che è arrivata la primavera, l'odore della fiera di paese ricorda l'estate, quello di funghi suggeriva l'arrivo dell'autunno. L'unica stagione che non aveva odore era l'inverno. Lui la paragonava alla stagione della morte, e diceva che la morte non ha un odore. Saggezza contadina, direbbero i qualunquisti. La chiamata di mia madre non giunse inaspettata. Ormai erano almeno cinque anni che non tornavo a casa. Spesso le ombre grandi diventano pesanti, e costringono alla fuga. Casa mia non era più sotto l’ombra della grande quercia.

Le parole di mia madre furono chiare e semplici:
- “Torna, Gherardo. vuole salutarti.”
Fui combattuto, ma decisi che glielo dovevo. O forse lo dovevo a me stesso. Presi il primo treno e partii, immerso nei miei ricordi. Mi sedetti in un angolo, ammirando il paesaggio dal finestrino. Mi era familiare, visto che ai tempi delle superiori lo vedevo almeno due volte al giorno.
-”Non ci credo. Gherardo?”
Mi voltai, sentendo quella voce conosciuta. Ci misi un attimo a ricordare chi fosse. Poi sorrisi.
-“Arturo?”
- “Quanto tempo, Gerry. Come stai? Che fai ora nella vita?”
Arturo. Crescemmo insieme al paese, sempre compagni di banco fino alle superiori, quando lui si iscrisse all’istituto tecnico e io optai per il liceo classico. A lui erano legati quasi tutti i miei ricordi di bambino. Ma come puoi raccontare una vita a una persona che non vedi almeno da vent’anni? Io non avevo molto da dire. Studio, una laurea in lettere, un posto come insegnante di storia e italiano al liceo scientifico. Elencai distrattamente queste cose, che nella sua vita di paesano dovettero sembrare quasi incredibili. Mi venne in mente mio padre, con la sua teoria sugli odori, e improvvisamente compresi che non erano necessarie le parole per capire chi avevo di fronte. Le sue mani gesticolanti odoravano di metallo, quindi faceva un lavoro manuale. Dalla sua borsa spuntava un profumo di dolciumi, quindi probabilmente stava portando qualcosa comprato in città a un bambino. Non chiesi nulla su di lui, ma non rimasi sorpreso quando - spontaneamente - iniziò a parlarmi della sua famiglia, dei bimbi piccoli e dei problemi che aveva alla fabbrica. Pensai istantaneamente se per lui fosse la stessa cosa, se la mia giacca sgualcita odorasse di libro.

Scendemmo insieme dal treno. Ci salutammo frettolosamente con la promessa di rivederci presto. Mentimmo entrambi, a nessuno dei due sarebbe interessato farlo. Mi incamminai verso quella che un tempo consideravo la mia casa con passo lento. Passai davanti al panificio della signora Claudia. Tutte le domeniche ci entravo. L’odore di pane fresco di un tempo però non si sentiva più. Le paste fresche comprate prima di andare a messa, quando ancora la messa per me aveva un valore. Poi le lunghe discussioni di adolescente proprio con mio padre, fervente cristiano. Lui credente dalla bestemmia sempre in bocca. Io giovane ateo in divenire, dai modi delicati e dal sorriso gentile. Avanzai sulla mia strada con lo sguardo basso. Nonostante gli anni di assenza potevo orientarmi solo con l’uso dell’olfatto, senza il bisogno di guardare quel posto che ormai non mi apparteneva. Passai il negozio di fiori. Qui comprai la mia prima rosa per Alessandra. Ricordo che investii tutti i soldi che mamma mi aveva dato per la merenda, ma lei fu felice e mi premiò con un bacio. Un bacio che mi lasciò assolutamente indifferente.

Proseguii il mio cammino, divincolandomi tra l’odore di frutta fresca del fruttivendolo Geronimo e il profumo di arrosto proveniente dalla casa della signora Adele, l’unica persona che cucinava meglio di mia madre. Ad un certo punto iniziai a sentire odore di casa. Alzai lo sguardo e vidi i ciliegi in fiore. Un leggera brezza mi fece cadere dei petali in mano. Leggeri e profumati. Da lontano scorsi mia mamma, ferma sulla porta di casa. Lo sguardo dolce come sempre. Poi un abbraccio pieno di affetto.
- “Sei venuto solo?”
- “Si, mamma. Ho preferito così”
Un silenzio. Una lacrima che io asciugai con una carezza. Quanti anni passati. Improvvisamente mi tornò in mente l’ultima volta che venni qui. Il litigio, mio padre furioso che mi colpì. Uno schiaffo sordo. Non era la prima volta, ma sarebbe stata l’ultima. La mia valigia finì con un calcio fuori dalla porta. Io non feci una piega, la raccolsi e me ne andai, sentendo gli improperi di mio padre sempre più in lontananza.
-”Vieni Gherardo, ti aspetta.”
Eccomi nella casa che un tempo consideravo mia. Nulla era cambiato. Percorsi il corridoio e bussai alla porta della camera di mio padre. Entrai. Le tende tirate lasciavano un atmosfera pesante. Lui era lì, a letto. La quercia di un tempo era ridotta ad un fuscello. Magro, il volto smorto, il respiro appena accennato. Non si voltò neppure, forse non percepì nemmeno il mio ingresso. Presi una seggiola e mi sedetti di fianco a lui, tenendogli la mano. A quel punto lui si voltò . Sorrise. Pianse. Pianse come un bambino, senza vergogna. Con un sussurro di voce disse:
- “Scusami. Ho sbagliato tutto. Ti prego, perdonami.”
Mai avrei immaginato una cosa simile. Pensavo che il nostro incontro fosse stato organizzato da mia madre, a sua insaputa. Invece lui era qui, e con un filo di voce mi stava chiedendo scusa.
- “Non c’è bisogno papà, ormai è passato tanto tempo. Non sforzarti.”
Lui sembrò non sentirmi nemmeno, e continuò il suo monologo.
- “Io non potevo capire. Sognavo una bella famiglia, dei nipotini che correvano in giardino. Mentre tu... tu... ”
Pianse, e senza accorgermene iniziai a piangere anche io. Sapevo bene che non avrebbe potuto capirlo. Lui, uomo tutto d’un pezzo, come poteva?
- “Ti prego Gherardo, perdonami.”
- “Papà... tu sei sempre stato il mio punto di riferimento. Mi hai dato la vita. Mi hai cresciuto. Mi hai accudito. Io ti ho sempre amato per come sei, forte e vigoroso.”
Ma questa mia frase sembrò non bastargli. Sorrisi. Mi alzai e andai ad aprire la finestra. La luce del tramonto entrò nella stanza, e con essa la dolce brezza primaverile. Qualche petalo di ciliegio si appoggiò sul suo corpo avvizzito. Lui si girò piano e mi disse:
- “Non sento l’odore dei ciliegi. Per me non c’è più nessun odore. Il mio inverno sta calando.”
Era evidente. Come era evidente che stesse aspettando solo una mia frase. Mi avvicinai e lo baciai sulla fronte.
- “Ti perdono, papà. Ti amo tanto.”
Sorrise. poi chiuse gli occhi. Non li riaprì più. Uscii fuori dalla stanza. Mia madre piangeva. Ci stringemmo in un abbraccio eterno, consapevoli che l’ombra della grande quercia era svanita. Andai in giardino proprio mentre il mio cellulare squillava.
- “Gerry? Come va?”
- “E’ finita. E’ morto 5 minuti fa... Si, il funerale sarà tra un paio di giorni... si, resto qui, non voglio lasciarla sola, chiederò un permesso a scuola.. mi manchi anche tu... ti amo!”.
Mi girai verso mia madre. Con pudore mi chiese:
-“Era Samuele?”
- “Si, mamma. Era lui.”
Sorrise e poi sussurrò.
- “Sai, mi piacerebbe conoscerlo. Anche papà un giorno mi disse la stessa cosa, ma era troppo orgoglioso per dirla anche a te.”
Sorrisi e le presi una mano. Poi respirai, forte. L’odore dei ciliegi mi riempì le narici. Era di nuovo primavera

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